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“La vita in NBA è fatta al 50% di sesso e al 50% di soldi.”
Dennis Rodman
Non vogliamo contraddire il The Worm per eccellenza, ma a noi della redazione preme aggiungere che “il 100% della vita in NBA è fatta di storie incredibili” e siamo qui per raccontarle.
NBA, l’influenza di Dennis Rodman: l’uomo che ha diviso il mondo del basket
Tra gli uomini che hanno saputo sconvolgere l’NBA c’è sicuramente Dennis Rodman: il dottor Jekyll e Mister Hyde del basket americano ha saputo influire sul Gioco come pochissimi altri.
Nella sua biografia ufficiale, Bad As I Wanna Be, pubblicata durante la stagione 1995-1996, Dennis Rodman si lancia in più di un’occasione in dettagli riguardanti la propria vita da star al di fuori dei campi da basket, tra donne, lusso e divertimento. Al contempo, ragiona a ciò che è stata la sua carriera da cestista fino a quel momento e si lascia andare a più considerazioni riguardanti il gioco e l’NBA.
La biografia di Dennis Rodman è stata solo una minima parte dei grattacapi che l’ala grande ex Chicago Bulls ha dato al commisioner NBA David Stern negli anni ’90. The Worm, soprannominato in questo modo per la sua abilità nel divincolarsi in mezzo a gambe e braccia di altri giocatori, è stato genio e sregolatezza, cultore di se stesso e al tempo stesso uomo fragile. Un vero e proprio uragano che ha saputo stravolgere il concetto di atleta nello sport americano.
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Dennis Rodman, l’infanzia difficile
Rodman nasce il 13 maggio 1961 nel New Jersey. Cresciuto senza un padre, un veterano di guerra scappato nelle Filippine quando Dennis era ancora bambino, e con una madre assente sia per il lavoro sia perché preferisce cullare le due sorelle maggiori, astri nascenti del basket, Dennis si fa uomo da solo nel quartiere più povero di Dallas, dove la malavita la fa da padrona.
In quegli anni Rodman, alto solamente un metro e settantacinque, viene scartato sia dalle squadre di football sia da quelle di basket. In questo contesto inizia a crescere per strada, dove trascorre la maggior parte delle notti, finendo spesso in carcere per via dei furti che commetteva per mantenersi. Di quel periodo disse: “Dormivo a casa di gente che conoscevo, dormivo nei parchi, dormivo dietro un 24/7. Di giorno camminavo in giro, non sapevo cosa fare”.
Compiuti i 20 anni, quando tendenzialmente un prospetto NBA orbita già nel panorama della Lega, ottiene una chiamata da un’università dello stato di Oklahoma, colpita dalla sua crescita esponenziale, la quale lo porta a un’altezza di quasi due metri. In quegli anni domina il basket collegiale e nel 1986, a 25 anni, viene chiamato da Chuck Daily per giocare nei tostissimi Detroit Pistons, i Bad Boys della NBA.
Dennis Rodman, il dominio della NBA e la “notte zero”
Chuck Daily, navigato coach NBA, sapeva bene che affrontando viso a viso Dennis Rodman lo avrebbe trasformato nel giocatore che era destinato a diventare. E la sua intuizione fu corretta: in tutta la sua carriera, Dennis diventa uno dei migliori rimbalzisti di tutti i tempi, definendo il tipo di giocatore difensivo a cui si ispireranno, nel futuro, giocatori come Draymond Green e Andre Drummond.
Durante la sua esperienza ai Pistons, vince due titoli NBA e due volte il premio di miglior difensore dell’anno. Eppure, nella sua testa inizia a frullare qualcosa: Chuck Daily, suo mentore e padre putativo, rescinde il contratto nel 1993, così Dennis decide di cambiare aria. La “notte zero” nella vita di Rodman è datata 11 febbraio 1993: nel parcheggio di fronte al Palace di Detroit, quel che era un giovane timido e introverso sta per togliersi la vita con la canna di un fucile in bocca.
Cosa fermò Dennis, quella notte, non si saprà mai. Sta di fatto che, a detta dello stesso Rodman, quella notte uscì fuori un nuovo Dennis, un Dennis malvagio, il Mr. Hyde del Dr. Jekyll di Detroit. Non a caso, la stagione successiva arriva ai San Antonio Spurs con dei capelli biondi ossigenati: è solo un’avvisaglia degli outfit sempre più sgargianti e imprevedibili che sfoggerà per tutto il resto della propria carriera, sia in campo che fuori, così come diventeranno imprevedibili i suoi atteggiamenti da qui in avanti.
Dennis Rodman, dalla leggenda nei Chicago Bulls al declino
Dopo due stagioni agli Spurs, Rodman approda ai Chicago Bulls, nonostante l’avversione di sua maestosità aerea Michael Jordan che in lui vede il vecchio nemico ai tempi dei Detroit Pistons. Eppure, mettendosi sotto in allenamento, prendendo qualsiasi rimbalzo possibile in campo e difendendo come un dannato su ogni pallone, Dennis si conquista la fiducia di MJ, Scottie Pippen e soprattutto coach Phil Jackson, il suo nuovo mentore.
Con i Chicago Bulls conquista altri tre titoli NBA, svariati premi individuali e definisce la sua legacy in quanto giocatore difensivo. Nonostante le sue notti folli tra Las Vegas e gli studios di Hollywood, la sua vita mondana tra una relazione complessa e l’altra (le più famose quelle con l’attrice Carmen Electra e con la cantante Madonna), Dennis conquista Chicago e lì lascia per sempre il Rodman dominante che abbiamo conosciuto fino a questo momento.
I disastrosi anni conclusivi della sua carriera, iniziati nel 1999 ai Los Angeles Lakers, delineano il suo futuro: oggigiorno è un personaggio eclettico che ha saputo vendere bene la propria immagine sia sui social che in televisione, ma a livello personale è un uomo alla continua ricerca di sé stesso, spesso sull’orlo della bancarotta e di un nuovo crollo mentale che possono portarlo in un abisso ancora più profondo. Ma, conoscendo Dennis Rodman, da qui in poi tutto è possibile e non bisogna dare niente per scontato con The Worm.
NBA, Jordan e la discendenza: perché il basket ha le migliori legacy nello sport
Nel basket il concetto di legacy è fortemente interconnesso con le figure di riferimento del Gioco. In pochi risponderanno che, per esempio, Isiah Thomas o Rip Hamilton abbiano lasciato un segno indelebile nell’NBA, eppure anche loro, insieme a tantissimi altri, hanno saputo creare la propria discendenza esattamente come i migliori.
Ad ogni modo, per la maggior parte degli appassionati, soprattutto i più giovani, le vere legacy le hanno costruite Michael Jordan, Kobe Bryant, Allen Iverson, LeBron James e Steph Curry. Niente di più vero, ma l’NBA e il basket in generale sono andati oltre queste figure, che oscurano il discorso su chiunque altro.
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Perché la legacy è un concetto intrinseco del basket
Per focalizzare subito il nocciolo del discorso, bisogna chiarire un aspetto cruciale: il basket è l’unico sport dove le legacy hanno avuto un effettivo continuum nella storia. Il calcio, ad esempio, non ha mai avuto discendenze che andassero oltre la semplice successione di due giocatori: Francesco Totti-Daniele De Rossi, Ronaldo–Neymar e pochissimi altri. In ogni caso, una legacy nel calcio non va mai poco più in là della semplice successione tra giocatori dello stesso club o della stessa nazionale.
Il tennis vive dello stesso inconveniente, laddove una legacy arriva solo al secondo termine di discendenza. Basti pensare alla successione tra Rafael Nadal e Carlos Alcaraz: in questo caso, infatti, la natura fortemente individuale dello sport non permette di mettere in piedi un discorso di trasmissione del talento quanto piuttosto un discorso di nuove e sempre più agguerrite rivalità sul calco Nadal–Federer.
Il basket, invece, trascende i confini. Dal punto di vista dei tifosi l’ispirazione e l’imitazione dei propri idoli va oltre il limite imposto dal credo sportivo, e questo vale anche per calcio, tennis o chi per loro. Gli sportivi della pallacanestro ragionano esattamente in questa maniera: hanno degli idoli che spesso e volentieri giocano nelle squadre che hanno sempre odiato, eppure non hanno mai smesso di coglierne i segreti per farli propri. Stiamo parlando di sportività allo stato puro, di totale gioia e ammirazione, di amore per il Gioco e non per il tifo.
La successione tra Michael Jordan e Kobe Bryant: come andrà avanti?
Michael Jordan cresce in una famiglia competitiva, che lo educa a voler sempre di più, ma riesce ad assorbire la competitività pari merito dal binomio Magic Johnson-Larry Bird. Al tempo stesso, studia ogni movimento, ogni fondamentale e l’eleganza di un altro giocatore, Julius Erving. Da Doctor J Michael coglie spunti, li fa suoi e li personalizza. Uno su tutti: la schiacciata che renderà immortale Air Jordan. In questo modo Jordan diventa il giocatore che è stato e che ispirerà, a grappolo, tutta una generazione di fenomeni.
Il più brillante, il più simile a MJ è stato sicuramente Kobe Bryant. Kobe cresce tra Italia e America sulle orme di suo padre, giocatore di medio-alto livello, ma è folgorato da Michael e vuole essere “like Mike“. Non solo, il Black Mamba vuole essere unico nel suo genere, esattamente come tutti i fenomeni della sua stazza che vogliono distinguersi: in questo modo, crescendo imitando Jordan, fonda la sua legacy, rappresentata dalla Mamba Mentality, un concentrato di professionalità, abnegazione, studio del Gioco e mentalità vincente.
Ad oggi non abbiamo ancora un erede designato alla legacy che parte da Erving e, passando per Jordan, finisce a Bryant. In molti ci hanno provato e quasi tutti hanno fallito, ma ci sono due giocatori nel fiore della loro carriera che hanno saputo fare propria quella mentalità e che sicuramente vinceranno grazie a questa: stiamo parlando di Devin Booker e Jayson Tatum, due giovani che hanno nel proprio DNA quella legacy che difficilmente morirà. E di loro lo stesso Kobe se n’è accorto, tanto da volergli infondere quello stesso fuoco sacro: a Booker lo ha sfidato su Twitter, scaldandolo con un “Be legendary” che è rimasto nella storia della NBA, mentre al talento dei Boston Celtics lo ha formato con allenamenti specifici direttamente sul campo.
Le altre legacy del basket: tra innovatori, anti-legacy e negazionisti
Tutto qui? Ovviamente non funziona in questa maniera. Le legacy nel basket sono varie, tanto diverse quanto influenti, e passo passo ognuna di loro ha lasciato dei solchi lungo la storia della NBA. Tra i tanti, basti pensare a quanto Shaquille O’Neal abbia forgiato quella dinastia di lunghi grossi e robusti capaci di dominare il pitturato, con un discendente illustre quale è Giannis Antetokounmpo, oppure quanto Dennis Rodman abbia influenzato grandi rimbalzisti del futuro come Andre Drummond o Kevon Looney.
Ancora, i play atletici e spumeggianti capaci di attaccare il ferro come se fossero ali (i vari Derrick Rose e Kyrie Irving, per intenderci) hanno tutti un minimo comun denominatore chiamato Allen Iverson. Infine, se pensiamo al lungo moderno pensiamo a un gigante sopra i due metri che sappia dominare sotto canestro così come saper portare palla e costruire il gioco, alla Karl-Anthony Towns: per questa innovazione dobbiamo ringraziare Kevin Garnett e la sua enorme influenza (anche se, in fin dei conti, il point forward è un concetto che risale al buon Scottie Pippen).
Di giocatori influenti se ne potrebbe parlare per giorni e giorni, facendosi tornare alla memoria grandissimi nomi quali Bill Russel e Wilt Chamberlain, ma quelli che hanno saputo forgiare la Lega a propria immagine e somiglianza sono quelli che più spesso ricorrono nei discorsi riguardo le migliori legacy. Parliamo di LeBron James, la cui legacy inizialmente sembrava inserirsi nella discendenza di MJ ma che con il tempo ha preso una strada tutta sua, una sorta di anti-legacy che oggi può addirittura sfidare quella di Sua altezza aerea, o di Stephen Curry, l’uomo che con le triple ha cambiato il gioco tanto che ora come ora tutti sanno tirare da tre e stanno costringendo pian piano il commisioner Adam Silver a considerare l’introduzione del tiro da 4.
Per concludere, non possiamo non parlare di chi la propria legacy la vuole rifiutare, in qualche maniera. Il caso di Kevin Durant è emblematico: un giocatore del genere è stato capace di cambiare il concetto di atleta, dando risalto a fisici più mingherlini, e al tempo stesso ha reso “la media”, il tiro da due, una delle armi più affilate nel panorama della NBA, dando ispirazione ad altri grandi giocatori come DeMar DeRozan. Eppure, a lui poco importa della sua orma nella Lega, la trova ingombrante e non sopporta che l’opinione pubblica faccia paragoni con i più grandi della storia. “Voglio solo andare là fuori e produrre, essere la migliore versione di me stesso, e poi andare a casa con la mia famiglia“: un vero e proprio negazionista della legacy.
NBA, “‘Sta mano po esse fero e po esse piuma”: la sportività dietro al gioco duro di Dumars
Se uno come Dennis Rodman, che in carriera ha giocato tra gli altri con leggende del calibro di David Robinson, Shaquille O’Neal, Kobe Bryant, Derek Fisher, Robert Horry, Steve Nash e Dirk Nowitzki, ti mette su un gradino poco più in basso di Michael Jordan e Scottie Pippen e sullo stesso piano di Isiah Thomas allora vuol dire che sei davvero un fenomeno.
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Ecco, Joe Dumars era un vero fenomeno, il problema è che ad oggi non ne viene riconosciuta la giusta legacy. Entrava in campo con i suoi Detroit Pistons, a cui dedicò una carriera intera, per menare tutto ciò che era possibile menare, ma lo faceva con un rispetto e una sportività che in molti hanno invidiato nel corso della sua carriera.
Se il concetto non fosse ancora chiaro, basti pensare che MJ stesso riteneva Dumars il miglior difensore in circolazione, uno capace di indurre l’avversario a fare sempre quel qualcosa che non voleva fare per metterlo in una posizione disagiante. Al tempo stesso, era capace di attuare tutta una serie di trucchi per disinnescare il talento e spingere il suo uomo a dover impiegare altrove le proprie qualità, magari giocando più sull’assistenza ai compagni o sugli intangibles, come può essere un blocco cieco o un movimento nello spazio. Insomma, Dumars sapeva annullare le tempeste perfette come Jordan e disperdeva quei venti di talento in altri spazi del campo, dove di certo c’era qualche altro Bad Boy a prendersi cura del proprio giocatore. Inoltre, due mani veloci e un cervello particolarmente lucido lo rendevano un’insidia per gli attaccanti, impauriti nel giocare 1 vs 1 con lui poiché la palla rubata era sempre dietro l’angolo.
Michael Jordan non era uno che si spendeva in eccessivi encomi nei confronti degli avversari, ancor meno se si trattava di un Piston. Eppure, nonostante Dumars fosse uno degli uomini cardine delle Jordan Rules di coach Chuck Daly, uno che lasciava non pochi lividi ad Air Jordan, lo stesso Michael lo ha elogiato a più riprese, tanto da averci sviluppato una sorta di amicizia al di fuori del campo, la quale si tramutava in un profondo rispetto sul parquet.
Dumars, il fallimento prima della redenzione
Se c’è un mantra nell’NBA di tutti i tempi è che bisogna innanzitutto fallire prima di poter vincere. Il dolore forgia la voglia e la tenacia di un giocatore di alzare l’asticella, di spingersi verso altri lidi laddove solo chi ha il coraggio di tentare e la resilienza di continuare può giungere. Lo sa bene Michael Jordan, che ha dovuto giocare (e perdere, tanto) 7 anni prima di vincere il suo primo anello. Lo sa bene Kobe Bryant, che è entrato nella Lega per spaccare tutto ma che al suo primo appuntamento con la storia, in quella stagione 1998-1999 orfana degli invincibili Chicago Bulls, si scioglie al sole con i suoi Los Angeles Lakers in semifinale di Conference contro i futuri campioni dei San Antonio Spurs. Lo sa benissimo LeBron James, il figliol prodigo di Cleveland, che prima di vincere ha dovuto passare un calvario di 9 anni e un doloroso addio che ha portato il suo talento a South Beach, a Miami.
Joe Dumars arriva alla stagione 1988-1989 dopo 4 anni di costruzione. Costruzione personale, costruzione di squadra: le ultime due stagioni sono state una delusione dopo un’altra per i Detroit Pistons, pronti a trasformarsi da lì a poco nei leggendari Bad Boys e negli eredi al trono lasciato libero da Celtics e Lakers. Nelle finali di Conference del 1987 i Pistons perdono 4-3 la serie e l’errore decisivo avviene in gara-5, il Pivotal Game che avrebbe deciso chi sarebbe andato 3-2 nella serie con un match point a disposizione. Joe Dumars rientra fiacco in difesa e non riesce a difendere il layup decisivo di Dennis Johnson che vale la vittoria dei Celtics a 1 secondo dalla fine. L’anno successivo, alle Finals NBA i Lakers di Magic Johnson e James Whorty sono troppa roba per i Pistons, che non riescono a controbattere con il duo Thomas–Dumars da 43+25 punti.
Tuttavia, nel 1988 qualcosa cambia. Nella testa dei Pistons i fantasmi iniziano a farsi ingombranti, dunque è arrivato il momento di inserire quella marcia che trasforma grandi gruppi in gruppi vincenti. Sul percorso di Detroit compaiono in finale di Conference i futuri rivali dei Bulls, con quel giovane Michael Jordan che va annullato a tutti i costi. Nelle 6 gare complessive di quella serie i Pistons mettono insieme diversi schemi per arginare Michael, il quale chiuderà comunque con numeri stratosferici ma difficilmente riuscirà a coinvolgere i compagni nel suo valzer di giocate spettacolari. MJ dovette arrendersi all’inevitabile, ma la sfida (e la vendetta) dovrà attendere solo qualche stagione.
Nel frattempo, i Pistons volano alle Finals NBA per cercare vendetta contro i Lakers. La serie non ha storia: parliamo di uno sweep in piena regola, uno smacco per una società vincente come quella losangelina. La giocata più spettacolare di quelle Finals hanno un nome e cognome, Joe Dumars: in gara-3, con i Lakers sotto di tre punti, lo stesso Joe perde palla lasciando campo libero a Los Angeles, che con 9 secondi sul cronometro scelgono David Rivers per la tripla del pareggio. Dumars corre come un forsennato, stacca dal terreno e stoppa il tiro, recuperando addirittura la palla che stava per morire sul fondo a favore dei Lakers.
È la stagione della redenzione per Dumars: con 27,1 punti di media, e quella stoppata che diventa leggenda, viene eletto MVP delle Finals e inserito nel miglior quintetto difensivo della NBA. E da lì parte la Storia.
Il backcourt con Isiah Thomas, il back-to-back e il declino dei Pistons: gli anni ’90 di Joe Dumars
Al di fuori di Joe Dumars, i Detroit Pistons erano il gruppo meno sopportato dall’universo NBA, tanto che il commisioner David Stern dovette migliorare il regolamento per evitare che Detroit continuasse a perpetrare il proprio gioco duro e violento. Lui, in quel contesto, era il perfetto equilibrio di fisicità, intelligenza e sportività.
A differenza di molti dei suoi compagni di difesa, Joe era perfetto anche per essere il Robin di Batman Thomas in attacco. Infatti, nella Lega era uno dei giocatori più letali sul tiro dal jumper e nel corso della propria carriera ha affinato un tiro da dietro l’arco di ottima fattura, con stagioni al 40% da tre. Inoltre, il suo bagaglio offensivo era arricchito da una visione di gioco invidiabile: Dumars era consapevole di dove si trovassero i propri compagni e, di conseguenza, le scelte offensive, in particolare quelle in transizione, erano sempre rivolte agli uomini liberi o ai compagni meglio posizionati.
Nella stagione 1989-1990 Detroit ripete l’impresa, vincendo il secondo anello NBA della propria storia. Joe partecipò per la prima volta all’All Star Game e venne di nuovo inserito nel best five difensivo a fine stagione, dopo aver guidato Detroit al miglior record della Lega (59-23) e dopo aver dominato i playoff, passando come un rullo compressone anche sopra le proprie nemesi, i Chicago Bulls. Alle Finals del 1990 i Pistons affrontano i Portland Trail Blazers di Clyde Drexler, ma li regolano con facilità esattamente come le altre squadre, vincendo la serie 4-1. I Bad Boys ce l’avevano (ri)fatta.
Negli anni successivi i Pistons dovettero cedere il passo alla marea chiamata Bulls guidata da Michael Jordan, il quale si legò al dito il trattamento riservatogli in quegli anni dai ragazzi di coach Daly. Nonostante ottime medie negli anni ’90 e diverse convocazioni alla partita delle stelle, Dumars dovette iniziare a fare i conti con il tempo e con i marinai che via via lasciavano la barca: Daly, Rodman, Laimbeer e infine Thomas nel 1994. Joe si ritira nel 1999 a 36 anni portando con sé una delle miglior legacy difensive di sempre, anche se nei discorsi del GOAT difficilmente il suo nome appare. O almeno, non per Dennis Rodman.
NBA, “Prendete il file del terzo quarto e salvatelo subito”: leggendario Tatum
L’esaltazione completa di una serata NBA non si traveste delle sole giocate, dei tiri perfetti per essere ritratti, delle storie da film hollywoodiano: una serata NBA viene elevata, attraverso “l’atto di attribuire onore e gloria”, quando le giocate sono visivamente descritte da chi, quelle giocate, sa renderle leggendarie con il solo racconto. Che Jayson Tatum abbia messo a referto 51 punti, con 11/18 da due e 6/10 da tre, conditi da 13 rimbalzi, 5 assist, 2 palle rubate e 0 palle perse conta il giusto. Che Jayson Tatum sia diventato il primo giocatore di sempre a segnare 51 punti in una gara-7 di playoff NBA è un’ottimo aneddoto per chi deve riempire gli almanacchi. Che Jayson Tatum abbia mandato a casa Philadelphia dell’MVP Joel Embiid in una gara-7 serve solamente a tutti quei tifosi dei Celtics che ieri sera hanno fatto le ore piccole per festeggiare tra le strade della ridente città di Boston. Quel che attira un semplice appassionato di basket, che non deve stilare taccuini statistici, riempire almanacchi o festeggiare in strada la propria squadra del cuore, si trova altrove.
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Diritti: profilo Twitter NBA
“Prendete il file del terzo quarto e salvatelo subito“. Io, tifoso del basket, tifoso dello sport prima che singolo tifoso di una singola franchigia rivedo in queste parole la leggenda, la perfezione di un racconto che racchiude in una frase tutta l’essenza del perché mi emoziono quando guardo di fronte a me un campo con un canestro e una palla a spicchi. “Jayson Tatum nella storia dei playoff NBA“: qui, sta tutto qui, il basket. E la voce, inconfondibile, è sempre la sua. Riprendete ora la partita, gustatevela come si deve e cercate di farmi un riassunto. Fatto? Nah, così non scorre, così non rivedo la leggenda. Non voglio i numeri, non voglio celebrare il vincitore o umiliare i vinti, voglio la vera essenza della pallacanestro. Voglio la narrazione, il luccichio negli occhi di un bambino che vuole solo ed esclusivamente la palla a spicchi, non quella a rombi. Voglio che il racconto renda leggenda Jayson Tatum.
Tatum, la redenzione del campione appannato
Piccolo fast backward alle scorse puntate della serie: in un botta e risposta continuo, Philadelphia e Boston si scambiano il risultato diverse volte e nessuna delle due sembra davvero in grado di portarsi a casa la serie con convinzione. Come se non bastasse, gara-6 finisce “solamente” 86-95 per i Celtics, un risultato che non rispecchia lo spettacolo della NBA moderna ma che ai più nostalgici può certamente riportare alla mente le serie playoff dei mitici anni Novanta.
Il nostro uomo copertina, il salvatore della Beantown diventa il bersaglio per eccellenza. Sono troppe le gare durante le quali, nonostante qualche acuto come i 36 punti in gara-5, le percentuali al tiro sono quantomeno rivedibili. In molti iniziano a pensare che non sia in grado di giocare sotto pressione come i suoi diretti “antenati” Kobe Bryant e Michael Jordan, né che abbia una buona shot selection, la quale spesso e volentieri si ferma a triple forzate. Insomma, in tanti si chiedono: “Tatum è veramente un attaccante completo, una di quelle tempeste perfette impossibili da marcare?”.
In effetti, le percentuali non giovano al numero 0 di Boston. Al di là dell’86% ai liberi, Tatum tira con il 45,3% da due e il 35,9% da tre. C’è da dire che per raccogliere la legacy dei due sopracitati forse ci vuole qualcosa di più. Forse, c’è bisogno di mettersi il mantello di Superman e diventare clutch quando ce n’è più bisogno, scatenando quella tempesta perfetta che uno della sua stirpe ha nascosta dentro sé. Il momento per regalarsi all’immortalità è qui: 60,7% da due, 60% da tre punti, 78,6% ai liberi e un repertorio di scelte offensive da far impallidire anche i migliori. E se Flavio Tranquillo, sì, proprio lui, ci racconta che dobbiamo metterci da parte il file del suo terzo quarto, beh, potete capire cosa intendiamo quando diciamo che il racconto, nell’NBA, ti rende più leggendario delle statistiche e delle imprese che superi sul parquet. Jayson Tatum for the ages.
NBA, costante Jimmy Butler: l’uomo che non smette mai di sorprendere
La consapevolezza di un leader sta nelle qualità che questi può dimostrare in un campo, poco importa se sia in battaglia, in un’azienda o su un parquet. Ma se quel leader continua a stupire nel proprio settore solamente perché la maggior parte delle persone ha sempre sottovalutato le sue abilità, beh, prima o poi ti sbatte in faccia la realtà con una violenza inaudita. E quel che è ancora più impressionante è quanto sia costante quel leader: Jimmy Butler scende in campo da più di un mese con la consapevolezza di ciò che è, ma soprattutto con la consapevolezza di quel che i suoi compagni di squadra sono per lui. In questo modo riesce a rendere con una costanza disarmante, come se fosse una macchina oliata alla perfezione che nel periodo dei playoff gira senza mai incepparsi. Lui, tutto questo, lo sa bene e sembra che sia l’unica persona al mondo consapevole di ciò che sta succedendo ai Miami Heat: “Sto giocando a un livello incredibile perché me lo permettono [i miei compagni di squadra]. Non stanno ponendo limiti al mio gioco. Si fidano di me con la palla e in difesa.” Fattuale, non c’è altro da aggiungere.
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Miami Heat, da “stagione di passaggio” alle Finali di Conference è un attimo
I Miami Heat hanno boccheggiato per una stagione intera. Alla fine si qualificano ai playoff arrivando settimi in stagione regolare e si ritrovano a dover affrontare il purgatorio dei play-in. Se il buongiorno si vede dal mattino, a Miami qualcuno ha visto una post season nerissima all’inizio del torneo: sconfitta contro gli Atlanta Hawks per 105-116 e il tutto rimandato alla sfida contro i Chicago Bulls. Jimmy Butler aveva già iniziato a scaldare i motori, ma 21 punti e 9 assist non sono bastati a salvare i suoi. Poco importa: i Chicago Bulls, nonostante un’ottima rosa a disposizione, non riescono a imporre il proprio gioco e vengono travolti 102-91 al Kaseya Center di Miami. Jimmy inizia a ingranare la marcia: 31 punti, 5 rimbalzi e 3 assist con un +/- di +18.
Ora sì che iniziano davvero i playoff e il primo ostacolo da affrontare è nientepopodimeno che … Giannis Antetokounmpo! Ogni sforzo degli Heat sembra svanire nel nulla perché più questa squadra si impegna e più gli ostacoli aumentano. Eppure, né noi, né i Bucks né tantomeno gli stessi Heat hanno fatto i conti con IL leader. Jimmy Butler prende per mano i suoi e guida la carica: supera gli imprevisti, dati gli infortuni di Victor Oladipo e Tyler Herro, supera la voglia dei Milwaukee Bucks di dimostrare di essere una contender anche senza The Greek Freak, frenato da un infortunio alla schiena, e supera qualsiasi pronostico. Prendendosi il fattore casa sin dal principio, Miami lascia ai Bucks una misera vittoria in gara-2, ma di fatto regola la serie e la chiude agilmente in 5 partite. Stiamo già parlando di storia, perché l’ottava testa di serie che batte la prima non è proprio un qualcosa che si vede spesso in NBA, ma a tutto ciò vanno aggiunte le cifre di Jimmy: 37,6 punti, 6 rimbalzi e 4,8 assist di media, con una leggendaria gara-4 da 56 punti e il tiro che forza l’overtime in gara-5 segnato a 0.5 secondi, su una gamba, cadendo all’indietro, prendendosi un tiro inizialmente disegnato per un altro giocatore e marcato a stretto contatto da Jrue Holiday, uno dei migliori difensori dell’NBA.
Prossima fermata, prossima serie e il treno Miami Heat fa tappa al Madison Square Garden, un tempio del basket mondiale. Jimmy & co. sono chiamati a fronteggiare una delle più dolci sorprese di questa stagione NBA, quei New York Knicks che di solito le parole “Semifinali di Conference” le leggono solamente sui giornali. Eppure, quest’anno nell’aria della Grande Mela gira qualcosa: quel qualcosa è il profumo di redenzione e il produttore di cotanta dolce fragranza si chiama Jalen Brunson. Il talento ex Dallas Mavericks ha rivoluzionato la mentalità di New York e ora guida un gruppo affamato e pronto a sorprendere tutti. Tutti, ma non Jimmy Butler. Pronti via, gli Heat si portano subito a casa il fattore campo (spoiler alert: non sarà l’ultima volta in questi playoff), lasciando ai Knicks giusto un paio di partite per alimentare una flebile speranza di passare il turno e regalando al contempo a tutti gli appassionati di basket uno spiraglio di gara-7 da gustarsela tutta. E invece, nella decisiva gara-6, Miami tira fuori tutte le energie a disposizione, tutto il talento dei suoi effettivi e annulla un Brunson da 41 punti per portarsi a casa l’accesso alle Finali di Conference, battendo New York di soli 4 punti. L’impresa è stata portata a termine dagli Heat facendo affidamento per un buon 80% delle partite su un uomo che a momenti alterni deve giocare sul dolore e su vecchi acciacchi mai del tutto messi in sesto: piccola flessione nel box score, con 24,6 punti, 8 rimbalzi e 6 assist di media in 5 partite anziché 6 per via dell’infortunio alla caviglia che lo ha tenuto lontano dal campo in gara-2, ma tantissimo lavoro di squadra (come si può notare nel numero di assist) e soprattutto un’intensità difensiva che non ha eguali nella Lega.
Nella serie contro i Knicks si nota un Butler più completo, sempre più leader di un collettivo che fa totale affidamento alle sue doti cestistiche e comunicative. E il tutto è condito da quello sguardo, quella calma che solo i più grandi hanno avuto in passato: in un video si vede Jimmy sullo sfondo che sorseggia dell’acqua, pacato, quasi marmoreo, mentre tutti i suoi compagni festeggiano il passaggio del turno. Ecco, lui in quel momento sa che qualcuno deve tenere in mano le redini del gruppo, sa che qualcuno deve tenere alto il livello della concentrazione e dell’agonismo, sa che qualcuno deve essere Michael Jordan e Kobe Bryant. Lui so sa benissimo, e infatti il bello deve ancora venire.
“Job’s not finished”: Butler strappa il fattore campo anche ai Celtics
“Hey Jimmy, ci hanno dato il 3% di possibilità di arrivare alle Finals NBA, mentre i Celtics hanno il 97%”. Panico. In questo momento qui, esattamente con questa frase (che ci immaginiamo qualcuno gli abbia riferito), Jimmy Butler ha deciso di prenderla sul personale. L’uomo delle sorprese non dovrebbe più sorprendere nessuno data la stagione che sta giocando, eppure in gara-1 delle Finali di Conference è sceso in campo e ha messo insieme la bellezza di 35 punti, 5 rimbalzi, 7 assist, 6 palle recuperate, 12/25 al tiro e 9/10 ai liberi, ribaltando ancora una volta il fattore campo. Siamo sorpresi? Il paradosso è proprio quello: Jimmy Butler, l’uomo dei numeri fuori di testa, delle giocate clutch anche se si tratta di un “semplice” assist, della mentalità vincente non lo scopriamo quando gioca bene, eppure ogni volta che mette insieme quei numeri diciamo tutti: “Wow! Ma chi è questo?”
“Questo” è un campione vero, scaricato fin troppo presto dai Chicago Bulls, dai Minnesota Timberwolves e, soprattutto, dai Philadelphia 76ers. “Questo” è un fenomeno in missione, che vuole smettere di essere semplicemente “colui che sorprende” e vuole trasformarsi in una versione moderna di MJ e Kobe. “Questo” è l’uomo che “veni, vidi, vici“: entra in un palazzetto avversario, poco importa che sia il Madison Square Garden o il TD Garden, e lo fa suo ribaltando il fattore campo. “Questo” è, a detta di coach Erik Spoelstra, il miglio two-way player del mondo, un giocatore completo che ha compreso la forza dei suoi compagni e ha ricambiato la fiducia che loro hanno riposto in lui, rendendoli protagonisti ad uno ad uno. E non è finita qui, perché “Job’s not finished“, statene certi.
NBA, “the elbow pass” di Jason Williams: pensa sempre con la testa tua
Sin da piccoli siamo stati abituati a sentirci ripetere continuamente che, per andare avanti nella vita, dobbiamo sempre dire “sissignore” e annuire sorridendo a chi ci dice cosa fare. Evidentemente, lo stesso destino è toccato a Jason Williams, che ha raccontato a più riprese quanto sin dall’infanzia le sue giocate fuori dal comune non andassero a genio ai suoi allenatori, i quali gli consigliavano di giocare più “canonicamente”.
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Ecco, fare la parte dello Yes Man come fosse un Carl Allen qualsiasi non era nelle corde di Jason, l’anticonformista per eccellenza del basket, il modello che tutti gli underdog prendono a esempio quando qualcuno pontifica con presunzione: “Così non si fa, non pensare con la testa tua”. A niente sono serviti quei moniti: nella testa di Williams determinate giocate, determinati passaggi, determinati dribbling potevano essere eseguiti in una sola maniera, alla White Chocolate way.
Ci sono decine e decine di giocate di Jason Williams che varrebbe la pena descrivere minuziosamente: per quelle, vi lasciamo a un bellissimo articolo scritto dall’Ultimo Uomo. Noi, qui, vogliamo parlare della Giocata, il riassunto perfetto dell’estro creativo di White Chocolate. Qui, parliamo dell’elbow pass, la quintessenza di tutto ciò che c’è di sbagliato su un campo di basket resa poesia in movimento.
L’assist più bello mai registrato: Jason Williams impacchetta, LaFrentz spreca
Un dipinto, quando terminato, viene di solito posizionato in una cornice maestosa, che possa rendere onore alla bellezza espressa attraverso la tela. In altri casi, la cornice può essere più modesta, ma in ogni caso conclude l’opera nel suo complesso. Il 12 febbraio del 2000, a Oakland, Jason Williams, in arte White Chocolate, conclude il suo quadro più famoso con tanto di firma viola sulla canotta bianca dei Sacramento Kings, eppure quell’opera non avrà mai la sua degna cornice. Il contesto è la gara dei rookie del weekend dell’All Star 2000-2001. Per dare un’idea di quanto fosse stata leggendaria quell’edizione, basti pensare che è l’All Star che consegna a imperitura memoria Vince Carter, il quale domina lo slam dunk contest con la sua celebre reverse dunk e la maglia viola dei Toronto Raptors.
Jason Williams fa parte del sophomore team, i ragazzi al secondo anno in NBA, e affronta i veri e propri rookie, quelli appena entrati nella Lega. Tra i giovanissimi, il più interessante è il futuro campione NBA Lamar Odom e sarà proprio lui a trovarsi di fronte White Chocolate lanciato in mezza transizione verso il canestro. Jason palleggia con la destra e cambia mano. Ora la palla si trova sulla mano sinistra, pronta ad andare nuovamente verso destra con il più classico dei passaggi dietro la schiena. Lo stesso Williams guarda verso destra dato che un giovane Dirk Nowitzki è già pronto a ricevere in angolo per scoccare la freccia: la giocata riesce così bene a tal punto che Lamar Odom casca clamorosamente, come chiunque altro sarebbe cascato, nella finta più fuori di testa del mondo. Con il semplice linguaggio del corpo, White Chocolate manda tutti, avversari e osservatori compresi, a seguire un pallone che al giovane Dirk lì nell’angolo non ci arriverà mai. Williams perde palla? Assolutamente no. Odom intercetta il passaggio? Ma neanche per scherzo. Cosa succede, quindi, in quella mezza frazione di secondo durante la quale avviene la Storia?
Nel mentre che tutti osservavano la testa e la mano sinistra di Williams, il gomito destro aveva assunto una posizione anomala rispetto a quanto ci hanno sempre insegnato nei corsi di minibasket. Di nuovo, “pensa sempre con la testa tua”. Jason Williams mette in una posizione tanto sbilenca quanto perfetta il gomito destro, dandogli al tempo stesso la forza necessaria per spingere la palla di nuovo verso sinistra, là dove solo uno con il suo estro e il suo istinto sapeva che poteva arrivare quel pallone. Purtroppo, a ricevere non ci sono Paul Pierce, Mike Bibby o Cuttino Mobley, tutti sophomore e tecnicamente più dotati di chi riceve quell’assist leggendario. Infatti, a ricevere palla c’è un acerbo Raef LaFrentz, uno che a quanto istinto ed estro pecca, e non poco. Non ci è dato sapere se White Chocolate avesse visto arrivare LaFrentz con la coda dell’occhio o se si fidava del rimorchio: quel passaggio arriva alla perfezione e solo la poca elasticità del centro ex Denver Nuggets rende imperfetta un’opera d’arte che, ahinoi, rimarrà per sempre senza cornice. Un’opera che, tuttavia, non svanirà mai dalla nostra memoria anche così, incompleta, perché alla fine a noi, come a Jason Williams, piace pensare con la testa nostra e vogliamo convincerci che, in fin dei conti, “sì, quell’assist vale lo stesso”.
NBA, dalla gioia all’inferno: Derrick White come Joe Black
Meet Joe Black è un film del 1998 diretto da Martin Brest in cui figura un giovane Brad Pitt. Durante tutta la durata del film, i concetti di vita e di morte si intersecano quasi andando di pari passo e lo stesso protagonista è costretto, nel finale, a provare il dolore eterno dopo aver appena assaporato appieno le gioie della vita. Salto nel futuro e siamo nel 2023: i Boston Celtics devono disperatamente vincere gara 6 per cercare di completare la storica rimonta, da 0-3 a 4-3, ai danni dei Miami Heat, ma qualcosa è cambiato rispetto alle due gare precedenti in cui Jimmy Butler e compagni sembravano essersi completamente addormentati. Per vincerla, bisogna appellarsi all’aldilà, a una morte metaforica che dia il colpo di grazia alla gioia di Miami. E il colpo di grazia, con 0.2 secondi da giocare, lo dà il Joe Black più inaspettato della storia.
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Mai dare per finiti i Miami Heat
Vinte 3 gare su 3 a disposizione, gli Heat devono aver subito un cortocircuito nel sistema. Gara 4 e gara 5, entrambe match point per approdare alle Finali NBA, sono una debacle totale per gli uomini di Erik Spoelstra. La prima termina 99-116 in Florida mentre la seconda 110-97 al TD Garden: un netto declino per gli Heat, che nelle prime tre gare della serie avevano fatto registrare una media di 120 punti segnati. Il segreto sta nelle stats: Jimmy Butler inizia a soffrire le marcature di Boston e pian piano segna sempre meno, 29 punti in gara 4 e addirittura solo 14 in gara 5. Al contempo, il supporting cast diventa sempre meno efficiente rispetto alle prime tre uscite e non riesce ad aiutare il proprio leader ad arginare il duo Jayson Tatum-Jaylen Brown, autori rispettivamente di 33+21 e 17+21 punti nelle due partite antecedenti gara 6. E le sorprese non finiscono qui.
I Celtics amministrano gara 6 dall’inizio alla fine tranne per l’ultimo possesso degli Heat. Infatti, con sedici secondi e nove da giocare e Miami sotto di due punti, Butler si ritrova, ovviamente, il pallone del ko definitivo tra le mani. Il pubblico del Kaseya Center è in totale estasi, sicuro che Jimmy andrà a tirare da 3 per vincerla da eroe. A marcarlo stretto c’è il fenomeno di Boston, Tatum. Tuttavia, sul tentativo di Butler di sfruttare il blocco portato da Bam Adebayo, Al Horford cambia con Tatum e inizia a sfiancare il 22 in maglia bianca. Jimmy continua a palleggiare e a non trovare un compagno libero, o almeno così è in apparenza: sa bene che deve raggiungere una zona del campo ad alta percentuale e che deve farlo prendendosi quanto più tempo possibile per evitare che Boston ritenti, con un ultimo possesso a disposizione, il contro-sorpasso. Due secondi e uno alla fine. Butler ha portato Al Horford fino alla linea del fondo, sul lato destro, ed è pronto a tirare, ma il veterano dei Celtics non ci sta e lo marca strettissimo. Troppo, però: con soli due secondi da giocare, il numero 42 fa fallo su Jimmy e gli regala non uno, non due ma ben tre tiri liberi per ribaltare totalmente la partita.
Sono momenti concitati a bordo campo. Il pubblico di Miami sa che deve spingere sull’acceleratore del tifo per convincere gli arbitri ad assegnare quei tiri liberi, consci del fatto che il challenge chiamato da coach Joe Mazzulla non solo porterà a confermare il fallo, bensì lo tramuterà in tre tiri liberi anziché due come inizialmente era stato deciso. Gli arbitri, dopo un’eternità, annunciano al pubblico che “Butler is also behind the three point line at the time of the foul”. Boato assordante dell’arena. La possibilità di arrivare alle Finals è lì, nelle mani del loro giocatore simbolo, l’uomo della Provvidenza che è stato capace di guidare il proprio popolo attraverso il Purgatorio dei play-in per farlo giungere, dopo aver buttato fuori Bucks e Knicks, con un piede e mezzo nel Paradiso delle Finali NBA. Butler non trema, Butler non ha paura: tre su tre ai tiri liberi e cronometro portato a 3 secondi dopo il challenge.
“Non importa cosa sono, chi sono lo sai bene”: Derrick White è il tristo mietitore di Miami
Il numero 3 ritorna incessantemente: questa storia, iniziata nel Purgatorio dei play-in e quasi giunta al Paradiso delle Finals, vede Miami affacciarsi dal burrone per osservare l’Inferno di un clamoroso 4-3. E se non ci credete nel destino, beh, gli Heat avevano il 3% di approdare alle Finali e solo due squadre nella storia sotto 3-0 in una serie l’hanno portata sul 3-3. Chi ha deciso gara 6? Un giocatore con il numero di canotta multiplo di 3, quel Derrick White con la 9 sulle spalle. L’ultimo atto alla Joe Black è apparecchiato.
Jimmy Butler in panchina chiama “one stop”, una singola difesa per vincere la partita e raggiungere Nikola Jokic e i suoi Denver Nuggets in finale. Boston ora vede tutti i suoi sogni di gloria sfumargli davanti agli occhi e quindi sta gestendo il time out come meglio può. Uno schema, una singola giocata per ribaltare quel +1 che Miami ha dovuto faticosamente costruire durante il corso della partita. Rimessa nelle mani di Derrick White, su cui torneremo tra 2,8 secondi. Brown e Tatum portano via i propri uomini dal pitturato, attirando su di sé le attenzioni maggiori della difesa degli Heat, e lasciano che Marcus Smart si liberi dal post alto per andare a prendersi il tiro della vittoria. Smart riceve, si gira repentinamente a canestro e …. SBAGLIA!
C’è un video che circola in rete in cui si vedono dei tifosi di Miami a un matrimonio, tutti vestiti eleganti di fronte a un cellulare con la partita, che esultano come dei forsennati sul tiro sbagliato di Smart. Quel che quei tifosi non hanno calcolato, esattamente come non lo hanno fatto i difensori in maglia bianca, è l’uomo corso subito a rimbalzo per ammutolire il Kaseya Center. Derrick White non sembra essere tanto convinto del tiro del proprio compagno e dunque si fionda a raccogliere il rimbalzo prima di un distratto Max Strus, che lo vede partire ma non dà troppo credito alla sortita offensiva del numero 9. Un tagliafuori mancato, un accoppiamento sbagliato e Joe Black colpisce ancora. Perché “non importa cosa sono, chi sono lo sai bene”: a 0,2 secondi dalla fine, il protagonista più inaspettato ci regala una gara 7 leggendaria, che potrebbe per la prima volta nella storia dell’NBA ribaltare uno 0-3 in una serie dei playoff. Oppure no, ma questo solo il tempo saprà dircelo.
NBA, il nuovo concetto di play-pivot: la sottovalutata chimica tra Jokić e Murray
In passato, registrare un 34-10-10 in una gara delle Finals NBA avrebbe lanciato un giocatore nell’iperuranio del Goat Debate. Oggi, è solo una delle tante serate clamorose che un giocatore NBA riesce a mettere a referto. Per rendere idea della differenza, in Europa con 34-10-10 si vincerebbero a mani basse premi di MVP in qualsiasi competizione, Eurolega compresa. Negli Stati Uniti, una situazione simile sarebbe stata veritiera giusto qualche decennio fa mentre oggi, nel basket delle triple dal logo e delle difese “ballerine”, si finisce semplicemente nella marea di ottimi giocatori che hanno messo su numeri pazzeschi.
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Eppure, quando il tuo compagno di merende preferito, l’uomo a cui la maggior parte dei tuoi 122 assist totali nei playoff sono indirizzati, l’amico del cuore con il quale spazzi via le difese delle migliori franchigie NBA (per conferme, chiedere a Suns e Lakers), mette a referto 32 punti, 10 assist e ben 21, lo scandisco meglio per non far passare sotto traccia il concetto, VENTUNO rimbalzi, beh, la situazione cambia. Cambia in positivo per i due protagonisti della storia, cambia in positivo per la stagione dei Denver Nuggets. Questa, signore e signori, è la storia di Jamal Murray e Nikola Jokić, la coppia atipica che in troppi si sono persi nel mare delle stats fuori di testa della NBA.
Stockton-to-Malone, no grazie: Murray-to-Jokić, e viceversa
L’NBA moderna è alla continua ricerca di storie, di coppie, di sfide, di icone che possano in qualche modo reggere il confronto con il passato. Nello specifico, il fantasma dei magnifici anni ‘90 di Michael Jordan, delle difese arcigne, degli Stockton-to-Malone incombe sinistro sulla Lega. Oggigiorno vengono continuamente proposti paragoni dissacranti, dibattiti sulla presunta superiorità di LeBron James rispetto a MJ, su utopiche sfide tra vecchio e nuovo che si concentrano su domande del tipo: “Chi avrebbe la meglio? Shaq o Giannis? I Bad Boys potrebbero vincere due anelli giocando solo sulla fisicità come nei ‘90?” e così via. Il punto che gli analisti non considerano mai è che le epoche sono troppo distanti tra di loro e proporre simili analogie non fa che aumentare gli attriti nel Gioco piuttosto che unire gli appassionati.
Inoltre, quali sono le vere domande da porsi? Perché si vuole impostare il discorso sulla convinzione che “LeBron ha numeri migliori rispetto a Jordan e un dominio più longevo” piuttosto che, come propone Federico Buffa, “Jordan ha creato un modello di giocatore-azienda dando lustro all’NBA e diventando più grande dell’NBA stessa e questo di per sé lo rende un innovatore inarrivabile”? Perché si deve presumere che Shaquille O’Neal dovrebbe soccombere a priori contro Giannis Antetokounmpo per via dell’agilità e della velocità del greco quando in realtà si mettono a confronto due modelli di pallacanestro completamente differenti, con peculiarità che in un’epoca avrebbero giovato all’uno e in un’altra epoca avrebbero giovato all’altro?
In tutto questo marasma di opinioni contrastanti, con Murray e Jokić si sta finalmente costruendo qualcosa. Con questa coppia, sbocciata definitivamente nei playoff 2023, si sta aggiungendo alla storia del basket un tassello mai avuto prima d’ora. Non stiamo assistendo a una versione moderna degli Utah Jazz targati Stockton e Malone e non c’è nemmeno bisogno di scomodare il paragone con i due. Il duo dei Denver Nuggets è davvero qualcosa di unico nel suo genere e dobbiamo il tutto alla versatilità e all’innovazione di Jokić, il quale ha saputo rivoluzionare il ruolo del centro classico sviluppando tutta una serie di caratteristiche proprie di play come Stockton, segnando e prendendo i rimbalzi come Malone. Il discorso vale al contrario per il canadese: Murray gioca play, ha una visione di gioco invidiabile e sa bene come coinvolgere al meglio i propri compagni, ma in questi playoff sta dimostrando al mondo quanto sia migliorato in fase realizzativa e a rimbalzo, creando con il 15 serbo una delle coppie play-pivot più atipiche e complete che si siano mai avute in NBA e nella storia del basket in generale.
Gara 3 delle Finals conferma la rivoluzione
La conferma, se proprio ce n’era bisogno, è arrivata in gara 3 delle Finals NBA contro i Miami Heat. I Nuggets hanno vinto 94-109 giocando con coralità, in un sistema dove anche il rookie Christian Braun sta trovando la sua dimensione e il suo spazio sotto i riflettori. Tuttavia, ignorare l’alchimia del duo Murray–Jokić vorrebbe dire ignorare la Storia che si fa atto concreto, che prende una forma tutta sua nel continuum del Gioco.
Insieme, i due hanno fatto registrare per la prima volta nella storia delle Finals NBA una tripla doppia da almeno 30 punti a testa, e non poteva essere altrimenti con due giocatori così funzionali da saper ricoprire correttamente sia il ruolo di play che di pivot in maniera interscambiabile. Infatti, secondo coach Michael Malone il focus del duo di Denver non è tanto “giocare l’uno con l’altro” quanto piuttosto “l’uno per l’altro” in una simbiosi totale. Sono così uniti che sembrano al contempo due giocatori e uno, capaci di scombinare le difese avversarie in così tanti modi diversi da risultare irresistibili.
Irresistibili a tal punto che il 64% dei punti e il 70% degli assist di squadra arrivano direttamente dal loro genio. Un duo che, al di là delle statistiche di punti, rimbalzi e assist, fanno quasi paura per quanta somiglianza hanno nelle percentuali e nei tiri presi: 12-21 al tiro Jokić, 12-22 Murray, con 7 su 8 ai tiri liberi per entrambi. La rivoluzione è qui, di fronte ai nostri occhi, ora sta a noi non ignorarla a prescindere dal risultato finale di questi playoff. Perché il nuovo concetto di play–pivot è ormai una realtà e questa volta non c’è bisogno di scomodare nessun paragone eccellente; forse, le somiglianze con Murray–Jokić le troveranno in futuro: chi vivrà, vedrà.
NBA, gli anni di Ben Wallace ai Bulls: quando le ombre mettono in risalto le luci
Di tutte le canotte che desidero comprare, quella di Ben Wallace ai Chicago Bulls è sicuramente la più affascinante. L’idea che uno dei miei giocatori preferiti di sempre abbia vestito la maglia della mia squadra del cuore mi riscalda la fantasia, anche se di quell’esperienza si hanno poche testimonianze positive di Big Ben.
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Infatti, gli anni nella Windy City hanno rappresentato l’antitesi del gioco di Ben Wallace, nato underdog e diventato, negli anni, un vero e proprio dominatore. Eppure, come spesso accade nell’NBA, non bisogna fermarsi alle apparenze: le ombre lasciate da Ben a Chicago, in qualche modo, riescono a far risaltare ancora di più una figura tanto luminosa quanto atipica nel grande firmamento del basket a stelle e strisce.
Il percorso di Ben Wallace, il Dennis Rodman del 2000
L’infanzia e l’adolescenza di Ben Wallace non sono state tra le migliori. La favola, ovviamente, nasce in un contesto brutale, infernale: la cittadina di White Hall, nella desolata contea di Lowndes County, Alabama, è un luogo dell’orrore, il cui panorama è modellato da vecchie fattorie abbandonate quasi spettrali e quel demone chiamato “white supremacy” che corre nei campi tutti intorno. Lowdnes è un luogo che porta con sé un passato doloroso, divenuta nel 19º secolo una delle contee con il più alto tasso di linciaggi di afroamericani nello Stato.
Qui, giovani ragazzi crescono con un monito: lavorare per sopravvivere. Lo stesso Ben è costretto sin da piccolo a lavorare in un campo di noci per permettere alla famiglia di non soccombere alla fame. Eppure, lui e i suoi 11 fratelli trovano un modo di svagare con la fantasia, nello specifico con una palla a spicchi lanciata contro le vecchie assi di capannoni che, in passato, costituivano gli alloggi dei loro avi, gli schiavi dell’Alabama. E in quella fantasia, Ben Wallace strappava già i rimbalzi ai suoi fratellini, come se sin da quel momento il rimbalzo fosse la sua personale ancora di salvezza su questa terra.
Veloce fast forward e Ben Wallace ha già assaporato la delusione di non essere selezionato al draft, nel 1996, dopo aver passato l’esperienza del college in un istituto di secondo piano. Ancora, Ben ha già avviato la propria carriera, grazie a un provino in Italia con quella Viola Reggio Calabria comune a Kobe Bryant e Manu Ginobili, ma nel Bel Paese rimane solo il tempo di una partita prima di ricevere, qualche mese dopo, la chiamata dei fu Washington Bullets, i quali punteranno su quel giovane centro così muscoloso e tignoso in difesa. Ecco, i muscoli di Ben Wallace: al pari dei capelli, sono il suo tratto distintivo, le due caratteristiche che delineano la carriera di Big Ben.
I muscoli, dicevamo: per diventare Dennis Rodman devi sviluppare la tua forza fisica, devi concentrare tutte le tue energie sullo sviluppo del fisico per poter dominare anche contro giocatori nettamente più alti di te. Anche se poi devi sacrificare qualcosa dal punto di vista del tiro. E i capelli, che centrano i capelli? Al di là della sua famosa acconciatura, che lo renderanno The Fro negli anni a venire, Ben, tra i vari lavoretti utili a mettere il cibo in tavola, taglia i capelli per qualche dollaro, sviluppando un buon gusto per acconciature che strizzano l’occhio all’orgoglio afroamericano, lui che è nato nel profondo Sud e usava le assi di legno delle vecchie abitazioni degli schiavi come canestro.
Infine, i Detroit Pistons. Arrivato nella Motown dopo un’esperienza poco entusiasmante agli Orlando Magic, farà parte di un gruppo che riporterà a Detroit il concetto dei Bad Boys, esattamente con un certo “verme” di nostra conoscenza. Insieme a coach Larry Brown, Rasheed Wallace, Tayshaun Prince, Chauncey Billups e Rip Hamilton crea nel giro di 4 anni un gruppo capace di togliere il titolo a squadre ben più blasonate, tra cui i Los Angeles Lakers di Kobe Bryant, Shaquille O’Neal e Phil Jackson.
Quei Pistons erano la squadra della famosa scazzottata al Palace di Auburn Hills, un gruppo che giocava con un’aggressività fuori dal comune in difesa, nel quale il gigante dell’Alabama svolgeva il ruolo di leader silenzioso e focalizzato a oscurare gli attaccanti che marcava. E poco conta se in attacco giocassero un “basket brutto”: quei Pistons erano efficaci e insuperabili, capaci di tenere gli avversari sotto gli 86 punti di media fino al punto da portare un titolo nella città del Michigan, nel 2004. Da lì, il declino inizia pian piano a insidiarsi, dovuto a più di 10 anni giocati ad alta intensità per The Fro.
Gli anni di Chicago: il chiaroscuro che getta luce sulla carriera di Ben Wallace
Nella vita Ben Wallace ha già dovuto affrontare alcuni abissi: la povertà, il rifiuto, le critiche della gente. Eppure, arrivato a Chicago deve iniziare a fronteggiare una verità ancora più scomoda, un declino che uno della sua stazza difficilmente può accettare: quello fisico. Rifiutato un ricco contratto, o almeno per l’epoca, che avrebbe garantito a Big Ben 48 milioni di dollari per altri 4 anni, Wallace approda ai Bulls da free agent, dando inizio allo smantellamento di quei storici Pistons. Con una mossa simile Ben sembra voler ripercorrere le orme del suo illustre predecessore, Rodman, ma l’esito non è quello sperato, tanto che le due esperienze successive, ai Cleveland Cavaliers e di nuovo a Detroit, sono servite soltanto ad accompagnarlo verso una meritata pensione.
Nonostante le storie di Wallace a Chicago scarseggino, l’aura di quella canotta rossa numero 3 risplende. Lo stesso numero che, anni dopo, verrà ritirato a Detroit per onorare il 4 volte vincitore del titolo di difensore dell’anno. Perché tanta fascinazione per un periodo così buio? Nel momento peggiore della sua carriera, dovuto ai vari acciacchi e al contesto di ricostruzione, il pubblico non può che ricordare i fasti di Big Ben, sottolineando la gloriosa carriera che ha avuto e gettando le prime basi per un futuro ingresso nella Hall of Fame della NBA, avvenuto nel 2021.
Inoltre, Ben Wallace può dare sfoggio di tutta l’esperienza accumulata negli anni. Joakim Noah, leggenda dei Chicago Bulls, narra un episodio accaduto nel suo anno da rookie, stagione 2007/2008: il giovane centro, dopo 8 sconfitte in 10 partite, si trova con la squadra a Philadelphia quando si rende protagonista di un alterco con l’assistente allenatore Ron Adams, suo coach da tanto tempo, e viene costretto a tornare a Chicago. In seguito si scusa con il capo allenatore, Skott Skiles, ma il leader del gruppo Ben Wallace decide, a nome di tutti i giocatori, di sospenderlo per un’altra partita. Risultato: i Bulls perdono di 50 punti e molti si mettono dalla parte di Noah, forgiato da quell’esperienza e capace in seguito di conquistarsi il rispetto di giocatori e staff. Proprio come, osiamo immaginare, aveva previsto Big Ben, veterano esperto delle dinamiche di spogliatoio. Ecco, dunque, come i chiaroscuri riescono a mettere in risalto i punti di luce, anche perché in un quadro del Caravaggio, senza ombre, non ci sarebbe splendore. Fear the Fro.
PS: per approfondire alcuni aspetti dell’incredibile storia di Ben Wallace, consigliamo questo meraviglioso articolo de La Giornata Tipo.
NBA, “Anything is possible”: quando Garnett superò il demone chiamato “primo turno”
Nella NBA del 2023 siamo abituati a quei lunghi che sanno palleggiare, impostare, difendere su 5 ruoli, tirare da 3 ma anche “fare la legna” sotto canestro. Anzi, oggi come oggi sono la normalità nel ruolo di pivot: Giannīs Antetokounmpo, Anthony Davis, Joel Embiid, Karl Anthony-Towns, Nikola Jokić e, chissà in futuro, Victor Wembanyama, tutti giocatori totali che sanno sfruttare la propria stazza nel pitturato ma che al contempo non disdegnano il gioco da dietro l’arco.
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Diritti: Ballislife.com
Il precursore, in questo senso, è stato Kevin Garnett: dall’alto dei suoi 2,11 metri, ha indubbiamente aperto la strada al basket positionless, dove la completezza è diventata a tutti gli effetti un fondamentale, ma anche ai mega-contratti cui oggi siamo abituati. E ogni suo soprannome ne descrive appieno le qualità da precursore: The Kid perché ha dimostrato a tutti che il salto dal liceo all’NBA non solo è possibile, ma addirittura si può fare a livelli elevatissimi; The Revolution perché, come detto, ha segnato la strada ai lunghi moderni; The Franchise perché ha mostrato a tutte le franchigie quanto un solo giocatore possa in primo luogo creare da zero la fortuna della propria organizzazione per poi lasciarla nell’oblio una volta partito; The Big Ticket perché quei 126 milioni in 6 anni hanno dettato legge e causato un lock-out della NBA indetto proprio per discutere di contratti come il suo. Insomma, ci troviamo di fronte a uno di quei giocatori spartiacque, un titano dell’Olimpo che, tuttavia, come tutti i grandi eroi classici ha la sua debolezza.
Il primo turno dei playoff, il tallone d’Achille di KG
Il tallone d’Achille di Kevin Garnett è stato, per ben 7 stagioni consecutive, il primo turno dei playoff NBA. Dalla stagione 1996-1997 alla stagione 2002-2003, i Minnesota Timberwolves sono sempre riusciti a piazzarsi tra il 3º e il 4º posto nella Western Division, ma a stagioni regolari così prolifiche non sono mai susseguite post-season all’altezza delle aspettative che ruotavano attorno a KG e i suoi. E dire che, in quelle stagioni, il talento non mancava: Stephon Marbury, il play che, al pari di Sam Cassell qualche anno più tardi, più si adattò al gioco rivoluzionario di Garnett, Chauncey Billups, campione NBA con i Detroit Pistons nel 2004, Stojko Vranković, leggenda dell’Eurolega ma poco dominante in America, Terry Porter, Micheal Williams, Malik Sealy e Radoslav Nesterovič tra gli altri.
È pur vero che affrontare la divisione Ovest non doveva essere per niente facile in quegli anni, con corazzate come Utah Jazz, Houston Rockets, San Antonio Spurs, Seattle Supersonics, Sacramento Kings e soprattutto i Los Angeles Lakers che da lì a poco avrebbero completato il three-peat con Phil Jackson, eppure in quel di Minneapolis la sensazione di essere di fronte a un progetto fortemente fallimentare era sempre dietro l’angolo. Anche perché, tra le altre motivazioni, Kevin Garnett nel 2005 compie ben 10 anni di carriera NBA senza effettivi successi se non una caterva di premi individuali, preoccupante sintomo di giocatore stratosferico intorno al quale non è possibile costruire un gruppo vincente.
L’unica parvenza di cambiamento avviene nella stagione 2003-2004, quando la dirigenza decide finalmente di affiancare a The Big Ticket due veterani del calibro di Sam Cassell e Latrell Sprewell, ma il vento di speranza spira fino alle finali di Conference, perse 2-4 contro i Lakers di Kobe Bryant e Shaquille O’Neal, per poi fermarsi inesorabilmente.
“Anything is possible”, la fine della maledizione: l’anno del titolo ai Celtics
Garnett rimane paziente di fronte a una società poco predisposta a creargli intorno un gruppo dalla cultura vincente, ma al 12º anno in NBA senza vittorie si ritrova costretto, a malincuore, a lasciare la casa putativa. Nella giovane storia della franchigia di Minneapolis, d’altronde, l’associazione di parole “progetto inconcludente” sembra essere un tormentone che di stagione in stagione delinea le aspettative dei T’Wolves senza effettivi spiragli di successo.
Per The Franchise, quindi, è tempo di perdere un soprannome e cambiare aria: nella stagione 2007-2008 si unisce a Paul Pierce, Ray Allen e Rajon Rondo i quali, guidati da coach Doc Rivers, riscrivono di nuovo la storia di una rivalità eterna, quella con i tanto odiati Los Angeles Lakers nemici numero uno dello stesso KG. Di nuovo, Garnett è protagonista di una rivoluzione in atto nella NBA poiché, unendosi ad Allen e Pierce, riporta in auge quel concetto dei Big 3 che a Boston regala dolci ricordi dei tempi dorati di Larry Bird, Kevin McHale e Robert Parish, emulato di lì a poco da altre franchigie in grado di allestire formazioni leggendarie, i Miami Heat di LeBron James e i Golden State Warriors degli Splash Brothers su tutte.
Nella capitale dell’immaginario celtico nordamericano, The Big Ticket trova finalmente la squadra di cui ha bisogno per sostenere e alimentare la sua fame di vittorie, un roster tanto completo e competitivo che neanche il tempo di giocarsi una stagione intera che i Boston Celtics si ritrovano alle Finals NBA contro i Los Angeles Lakers. E quelle Finali del 2008 hanno al loro interno un intreccio di storie incredibile: KG ha finalmente la possibilità di vendicarsi dei gialloviola e di conquistare il suo primo anello, ma non solo dato che i Celtics sono chiamati a riscattare la cocente sconfitta subita nel 1987, una ferita ancora da rimarginare a ben 21 anni di distanza.
Ovviamente, il lieto fine: Garnett ha finalmente dalla sua un gruppo di campioni con cui condividere il peso delle aspettative e non deve più farsi carico da solo del destino di una franchigia intera. Serie vinta 4-2 e quell’”anything is possible” urlato da Kevin ai microfoni con tutta l’aria a disposizione nei polmoni per sfogare la frustrazione di una vita intera a sopportare il peso delle ambizioni di altri, oltre che delle proprie.
Quale legacy ha lasciato, dunque, Kevin Garnett? Tralasciando premi individuali e di squadra, ricorderemo sempre The Revolution come IL giocatore two-way per eccellenza. Coordinato, con un equilibrio fuori dal comune, tecnico, intelligente e atletico: se oggi possiamo parlare di point-forward il grosso lo dobbiamo a lui. E se negli highlights della sua carriera molti ci inseriscono “solamente” le schiacciate prepotenti, i jumper dalla media e gli assist dietro la schiena, non bisogna dimenticarsi di quanto Garnett fosse forte in difesa, in grado di dominare al rimbalzo e alle stoppate in maniera costante per tutta la carriera. Ma non solo fisicità: KG era veloce, rapido e capace di cambiare sui blocchi in un battito di ciglio per aiutare i compagni, coordinando al tempo stesso tutto il sistema difensivo con la sua arguzia. E quel trash talk tipico di un giocatore tanto affamato quanto grintoso come lui … The Big Ticket, l’uomo che ha battuto i suoi demoni rivoluzionando il gioco per sempre.